quit quitting

Quiet Quitting: la nuova sfida del mondo HR si origina nei social

L’espressione quiet quitting, con la traduzione letterale, potrebbe essere resa con “abbandono silenzioso”.

Ma è un fenomeno più complesso. É un concetto che online ha guadagnato importanza ed un hastag dedicato: #quietquitting significa lavorare lo stretto necessario, per non perdere il posto di lavoro, rifiutarsi di fare straordinari o assumersi responsabilità non descritte da contratto. Senza esternare la bassa motivazione perché – per l’appunto – è una azione “quiet”, silenziosa.

Secondo diverse statistiche, sono soprattutto i giovani i maggiori quiet quitters e non sono più disposti a fermarsi in ufficio, o a tenere un notebook acceso, extra lavoro; non sono più disposti a fare straordinari o rispondere a email o whatsapp fuori dall’orario d’ufficio.

Origine del fenomeno quiet quitting

Il comportamento del quiet quitting non è certo una novità: da sempre ci sono impiegati che fanno il minimo necessario, senza produttività ed entusiasmo, evitando nuove responsabilità.

Come anticipato, negli ultimi anni il fenomeno ha guadagnato prima importanza sopratutto sui social networks. Da Tik Tok ( l’hashtag #quietquitting ha raggiunto in poco tempo più di 8 milioni di visualizzazioni) è passato poi ad essere divulgato su altre piattaforme social media.

Anche nel mondo delle serie TV, la “filosofia” del quiet quitting ha la sua bandiera nella recente Scissione“, su Apple Tv, dove gli impiegati sono ingranaggi senza motivazione e con un cervello scisso dalla vita fuori dall’azienda.

Oggi si trovano spiegazioni o tutorial YouTube, su come evitare mentalmente ed emotivamente un lavoro, ma rimanendo impiegati nell’azienda.

Questo signore, ad esempio, elargisce 6 consigli per praticare quiet quitting senza essere “beccati” dal capo.

Tra i consigli dello Youtuber: “Non sembra una buona idea trasmettere a nessuno in azienda che ti senti giù per il tuo lavoro. Non condividere queste informazioni con persone con cui lavori fino a quando ….sarai pronto per smettere davvero“.

Quiet quitting anche in Italia?

Il video sopra è di uno americano. Si potrebbe pensare che il fenomeno del quiet quitting riguarda gli USA. Non l’Italia.

E, approfondendo, negli Stati Uniti è quasi dilagante il quiet quitting: secondo uno studio Gallup sul territorio a stelle e strisce, i quiet quitter sarebbero il 50% della forza lavoro, il 18% sarebbero lavoratori dichiaratamente insoddisfatti, mentre il restante 32% è composto da lavoratori coinvolti e motivati.

Ma anche in Italia, ci sono dei campanelli di allarme per il diffondersi del fenomeno quiet quitting. Non ci sono dei numeri, anche perché la “filosofia” del quiet quitter è di non esternare che si sta facendo il minimo necessario, ma ci sono dei segnali che rappresentano una delle conseguenze: le dimissioni.

Infatti, a fine 2021, una nota congiunta del Ministero del Lavoro e della Banca d’Italia, comunicava che  “nel corso del 2021 le dimissioni sono gradualmente aumentate superando, nella seconda metà dell’anno, i livelli registrati nel 2020”. Nei primi dieci mesi del 2021 sono state rilevate 777mila cessazioni volontarie di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, 40 mila in più rispetto al 2019.

Come affrontare il fenomeno del quiet quitting in azienda?

Le “tecniche” del quiet quitting, a nostro avviso, non elevano le capacità e la dignità dell’essere umano. E non fanno certo bene all’azienda. Per questo chiudiamo l’articolo con due suggerimenti per uscire dallo “stallo” del quiet quitting.

Un fenomeno di può diminuire se si conoscono le cause. E per il quiet quitting possono essere diverse, dalla dirigenza senza una vision chiara per tutti, all’interno dell’organizzazione, o l’assenza di piani formativi e di crescita per gli impiegati.  Poi è indubbio che gli anni di pandemia hanno portato molte persone a valorizzare aspetti della propria vita esterni al lavoro.

Il primo passo per affrontare una situazione sospetta di quiet quitting è riconoscerne le cause nel proprio contesto, parlando e confrontandosi con dipendenti e collaboratori.

Il secondo passo di questa sfida, per chi si occupa di risorse umane e top management, è fare leva sulla cultura d’impresa, ad esempio con una corretta definizione di obiettivi di crescita, con azioni precise (riconoscimenti, formazione, remunerazione, opportunità di carriera, ecc.) per tutti i lavoratori.

In poche parole, sarà necessario ripensare i rapporti tra manager e impiegati e creare nuovi modi di interazione e coinvolgimento.

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